L'esperto risponde - Lavoro e malattia: cosa dice la legge
Abbiamo chiesto ai nostri consulenti di rispondere alle domande più gettonate in ambito legale e amministrativo. Risponde Chiara Ferrari

L’art. 32 della Costituzione definisce la salute come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della collettività.
Con riguardo ai rapporti di lavoro, questo si declina anche in una particolare tutela del dipendente, assente per malattia, che non potrà essere licenziato dal datore di lavoro durante un periodo garantito di conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) appositamente previsto dai contratti collettivi.
In altre parole, il lavoratore non può essere licenziato per il semplice fatto di essere malato.
La contrattazione collettiva può estendere il periodo di comporto in particolari ipotesi di malattie lunghe determinate, ad esempio, dalla necessità di accedere a cure post – operatorie o terapie salvavita.
Nel corso degli ultimi anni il tema della legittimità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto è stato più volte affrontato dalla Corte di Cassazione, finanche arrivando a prendere a riferimento la definizione di disabile individuata a livello comunitario, e cioè colui che si trova in una “condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata”
Recentemente, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in punto di legittimità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto (c.d. per sommatoria) di un lavoratore portatore di handicap con capacità lavorativa ridotta del 75%, che aveva impugnato il provvedimento datoriale sostenendone la natura discriminatoria (Cass. N. 9095/2023).
In tale sede la Corte di cassazione ha evidenziato come per il personale disabile, il rischio di accumulare giorni di assenza per malattia sia maggiore di quello riferibile al restante personale, proprio in ragione della condizione patologica riconducibile alla disabilità.
Si tratterebbe, pertanto, di una discriminazione indiretta evitabile applicando in favore di tali lavoratori una diversa disciplina del comporto rispetto a quella prevista dal CCNL, riconoscendo, ad esempio, un periodo di comporto più lungo.
Tale principio di non discriminatorietà opera secondo la Corte in modo oggettivo ed il datore di lavoro non potrebbe sostenere, a favore della legittimità del licenziamento, la mancata conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, non riportato sui certificati medici.
Tali recenti indirizzi giurisprudenziali sollevano non pochi interrogativi in capo al datore di lavoro che dovesse trovarsi nella situazione di voler intimare il recesso per superamento del periodo di comporto ad un lavoratore a lungo assente dal lavoro per ragione di malattia.
Un qualche soccorso al riguardo giunge ora agli operatori della materia dalla recentissima pronuncia della Cassazione n. 170/2025.
Dalla lettura di predetta sentenza si evincono infatti i seguenti punti:
1. il datore di lavoro che conosca (o che possa diligentemente conoscere) lo stato di handicap (o di disabilità in genere) del lavoratore è tenuto a verificare con lui se e quanta parte delle assenze per malattia registrate a suo carico possa derivare dal suo stato di disabilità. Ciò, al fine di poter apprestare, se del caso, i cosiddetti “ragionevoli accomodamenti”. Tra questi si potrebbero ritenere tali: la proroga del periodo di comporto, la concessione di un’aspettativa, la proposta di resa delle prestazioni in regime di lavoro agile, e così via;
2. il datore di lavoro che incolpevolmente non abbia elementi per ritenere il lavoratore in oggetto un lavoratore attinto da disabilità è tenuto ad indagare al riguardo, in contraddittorio con il lavoratore stesso.
Resta però in capo al lavoratore un generale obbligo di cooperazione con il datore di lavoro per rendere conoscibile il proprio stato di disabilità. Se infatti il lavoratore, a fronte della sollecitazione del datore di lavoro, rimane passivo, negando al datore di lavoro stesso i chiarimenti richiesti, il datore di lavoro medesimo sarà legittimato ad intimare all’interessato il licenziamento (sulla base del semplice superamento del periodo di comporto “trasversalmente” previsto dal CCNL applicato).
Alla luce di quanto sopra, si può concludere rilevando come ad oggi molta cautela sia richiesta al datore di lavoro che si trovi nella condizione di valutare l’ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, dovendo necessariamente indagare in via preventiva l’assenza di qualsiasi elemento riconducibile alla definizione c.d. “europea” di disabilità.
Con riguardo ai rapporti di lavoro, questo si declina anche in una particolare tutela del dipendente, assente per malattia, che non potrà essere licenziato dal datore di lavoro durante un periodo garantito di conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) appositamente previsto dai contratti collettivi.
In altre parole, il lavoratore non può essere licenziato per il semplice fatto di essere malato.
La contrattazione collettiva può estendere il periodo di comporto in particolari ipotesi di malattie lunghe determinate, ad esempio, dalla necessità di accedere a cure post – operatorie o terapie salvavita.
Nel corso degli ultimi anni il tema della legittimità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto è stato più volte affrontato dalla Corte di Cassazione, finanche arrivando a prendere a riferimento la definizione di disabile individuata a livello comunitario, e cioè colui che si trova in una “condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata”
Recentemente, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in punto di legittimità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto (c.d. per sommatoria) di un lavoratore portatore di handicap con capacità lavorativa ridotta del 75%, che aveva impugnato il provvedimento datoriale sostenendone la natura discriminatoria (Cass. N. 9095/2023).
In tale sede la Corte di cassazione ha evidenziato come per il personale disabile, il rischio di accumulare giorni di assenza per malattia sia maggiore di quello riferibile al restante personale, proprio in ragione della condizione patologica riconducibile alla disabilità.
Si tratterebbe, pertanto, di una discriminazione indiretta evitabile applicando in favore di tali lavoratori una diversa disciplina del comporto rispetto a quella prevista dal CCNL, riconoscendo, ad esempio, un periodo di comporto più lungo.
Tale principio di non discriminatorietà opera secondo la Corte in modo oggettivo ed il datore di lavoro non potrebbe sostenere, a favore della legittimità del licenziamento, la mancata conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, non riportato sui certificati medici.
Tali recenti indirizzi giurisprudenziali sollevano non pochi interrogativi in capo al datore di lavoro che dovesse trovarsi nella situazione di voler intimare il recesso per superamento del periodo di comporto ad un lavoratore a lungo assente dal lavoro per ragione di malattia.
Un qualche soccorso al riguardo giunge ora agli operatori della materia dalla recentissima pronuncia della Cassazione n. 170/2025.
Dalla lettura di predetta sentenza si evincono infatti i seguenti punti:
1. il datore di lavoro che conosca (o che possa diligentemente conoscere) lo stato di handicap (o di disabilità in genere) del lavoratore è tenuto a verificare con lui se e quanta parte delle assenze per malattia registrate a suo carico possa derivare dal suo stato di disabilità. Ciò, al fine di poter apprestare, se del caso, i cosiddetti “ragionevoli accomodamenti”. Tra questi si potrebbero ritenere tali: la proroga del periodo di comporto, la concessione di un’aspettativa, la proposta di resa delle prestazioni in regime di lavoro agile, e così via;
2. il datore di lavoro che incolpevolmente non abbia elementi per ritenere il lavoratore in oggetto un lavoratore attinto da disabilità è tenuto ad indagare al riguardo, in contraddittorio con il lavoratore stesso.
Resta però in capo al lavoratore un generale obbligo di cooperazione con il datore di lavoro per rendere conoscibile il proprio stato di disabilità. Se infatti il lavoratore, a fronte della sollecitazione del datore di lavoro, rimane passivo, negando al datore di lavoro stesso i chiarimenti richiesti, il datore di lavoro medesimo sarà legittimato ad intimare all’interessato il licenziamento (sulla base del semplice superamento del periodo di comporto “trasversalmente” previsto dal CCNL applicato).
Alla luce di quanto sopra, si può concludere rilevando come ad oggi molta cautela sia richiesta al datore di lavoro che si trovi nella condizione di valutare l’ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, dovendo necessariamente indagare in via preventiva l’assenza di qualsiasi elemento riconducibile alla definizione c.d. “europea” di disabilità.
Autore: Redazione